L’ultima macchina dei miracoli della medicina moderna (sempre più usata) si chiama ECMO e può salvare persone letteralmente sull’orlo della morte. Parlo di gente senza polmoni funzionanti, intrappolata sott’acqua, o col cuore fermo.
Cos’è l’ECMO medicina, la macchina che mette la morte in standby? Anzitutto ecmo non è uno strumento comodo: per ogni persona salvata da ECMO (l’acronimo sta per Extracorporeal Membrane Oxygenation, in italiano Ossigenazione Extracorporea a Membrana) ce n’è una che muore nonostante il suo utilizzo.
ECMO è la più aggressiva procedura di supporto vitale, costosissima e impegnativa per gli stessi pazienti: quasi un trucco contro la morte. Anzi, a dirla tutta: è l’esatto contrario delle “macchine della morte”: in un certo senso “tortura” il corpo per tenerlo vivo. Pompa il sangue fuori dal corpo, lo ossigena e lo reimmette all’interno tenendo in vita una persona per giorni, settimane, mesi anche con cuore o polmoni fermi.
Questa macchina ha creato “un nuovo paradigma,” secondo il dottor Kenneth Prager, direttore di etica clinica. “Puoi avere un paziente col cuore che non batte più, ma tenerlo ancora vivo e sveglio grazie alla ecmo. Puoi mettere la morte in standby”.
Nata per dare supporto vitale ai neonati, la ECMO viene sempre più impiegata anche sugli adulti. Negli USA le procedure sono triplicate negli ultimi 4 anni secondo l’Agenzia Federale di Ricerche sulla Salute.
ECMO non è disegnata come soluzione a un problema (non lo è) ma come un ponte che salva il paziente fino alla guarigione, al recupero o al trapianto. Ma quando i pazienti sono troppo malati, ECMO diventa solo un costosissimo (e crudele, per certi versi) limbo che li lascia svegli e coscienti ma con zero possibilità di sopravvivenza senza la macchina. I medici e i familiari devono solo stabilire quando staccare la spina e assistere alla fine del paziente.
ECMO macchinario: costo altissimo
Davvero. Il costo ecmo medio è di circa 600.000 euro alla settimana. Il rapporto cuore macchina prezzo è proibitivo. In un caso recente, un ospedale ha chiesto 4.5 milioni di euro per meno di 60 giorni di permanenza di un 19enne con una gravissima sindrome respiratoria, rimasto in coma attendendo un trapianto di polmoni che non è arrivato.
Più si diffonderà ecmo, dicono gli esperti, maggiore sarà la necessità di istruire il personale sull’opportunità o meno di usarlo e sul suo corretto impiego.
Quattro storie di ECMO
Le vicende incredibili (è il tenore di tutti i casi che coinvolgono l’ECMO) di quattro pazienti possono far capire le possibilità e la complessità di questa tecnologia.
Sette ore
La dottoressa Jessica Zitter era in servizio all’ospedale di Oakland in California quando fu allertata da un codice rosso. Un paziente 60enne con forte fibrillazione ventricolare che lo faceva letteralmente contorcere dalle convulsioni.
Lo staff praticò un massaggio cardiaco e una tracheotomia di urgenza per favorire la respirazione. Non funzionò. Applicarono il defibrillatore rilasciando due scariche. Non funzionò. I suoi livelli di ossigeno erano a terra. Qualcuno stava già predisponendo la pulizia post morte del “cadavere”. Il team decise di tentare l’uso di ecmo, una vera e propria “macchina recupero sangue”, richiedendo l’intervento all’Università di San Francisco che inviò la macchina il prima possibile.
All’arrivo dell’ECMO, la dottoressa Zitter non poté far altro che assistere inerme alla procedura. Un grosso tubo fu letteralmente infilato nell’arteria femorale del paziente, un altro nella vena femorale. Quando il sangue iniziò a fuoriuscire dal corpo per passare attraverso l’ecmo respiratorio il paziente era quasi nero per la deossigenazione. Appena un minuto dopo il suo colorito era tornato normale.
La Zitter, che ha scritto saggi sull’eccesso di tecnologia nel tentativo di mettere la morte in standby e prolungare la sopravvivenza, non dava comunque speranze: il paziente era già morto, solo che non lo sapeva. Aveva atteso sette ore, ben sette ore col cuore fermo in attesa dell’intervento.
Immaginate lo shock di vedere il paziente ristabilito e pronto ad essere dimesso.
“Fu un folle, folle, folle caso limite con una folle, folle, folle reazione,” tiene a precisare. E ha ragione.
Quando i pazienti sono sottoposti contemporaneamente ad ECMO cardiaco e ad ECMO respiratorio, solo uno su tre lascia vivo l’ospedale. Tassi più alti si riscontrano in caso di interventi di tipo respiratorio – solo ai polmoni (59%) o di cardiochirurgia – solo al cuore (42%).
Il fallimento di Natale
Un caso più comune è come quello capitato al dottor Haider Warraich della Duke University durante il suo tirocinio in cardiochirurgia.
Warraich fu chiamato in sala d’attesa dove un sessantenne che attendeva un trapianto di polmoni si era accasciato al suolo dopo un attacco cardiaco. L’uomo, capelli e barba bianca, interpretava Babbo Natale in una commedia teatrale quando una crisi respiratoria aveva reso necessario un trapianto di polmoni.
Il suo cuore, a corto di ossigeno, iniziò a correre all’impazzata e neanche il defibrillatore risolse il problema. Anche qui avviata, poi interrotta la pratica della pulizia post morte. Motivati a salvare non solo l’uomo, ma anche i nuovi polmoni che altrimenti sarebbero andati perduti, i medici chiesero l’intervento di una terapia ECMO.
Una volta collegato alla macchina, il corpo dell’uomo fu stabilizzato e gli fu praticata un’angioplastica. Niente da fare. Anche i reni erano in fase critica, e niente riuscì a ripristinare una possibilità di sopravvivenza. Come era? Ah, si. La morte in standby. Dopo oltre un mese di limbo fu staccata la spina.
“In questo caso,” dice Warraich, “l’ECMO sembrava appropriato. Ma i medici necessitano di maggior esperienza per capire quando è davvero utile e quando configura una forma di accanimento. Certo non è facile, quando una persona sta morendo davanti ai tuoi occhi, decidere lucidamente”.
La tecnologia, sviluppata negli anni ’70, non ebbe esiti incoraggianti sugli adulti fino al 2009, quando i primi risultati positivi in UK sui pazienti con gravi problemi respiratori la resero interessante.
Il trattamento “disperato” della febbre suina giustifica in seguito (e diffuse) l’uso di ECMO tra gli adulti. L’età media dei primi pazienti era di 51 anni, il 10% oltre i 65.
Una scelta intollerabile
Quando un paziente è sotto ECMO, la decisione su quando terminarne l’uso è sempre difficile e causa di divisioni nello staff medico, dice il dottor Robert Truog, direttore del Centro di bioetica alla Harvard Medical School.
In un caso illustrato sulla rivista Lancet, un 17enne arrivò nell’unità di pronto soccorso al Boston Children’s Hospital, dove Truog lavora da interno. Il ragazzo, che aveva già subito il trapianto di polmoni a causa della fibrosi cistica, non respirava più. L’unica via di salvezza era un paio di polmoni nuovi: fu sistemato nell’ECMO per tenerlo in vita in attesa di un nuovo trapianto.
Il ragazzo era cosciente, scriveva agli amici, faceva un po’ di lavoro a distanza, riceveva visite dai parenti. Dopo due mesi di vita “artificiale” l’ennesima mazzata: gli fu diagnosticato un cancro inoperabile, che lo rendeva non più idoneo a ricevere nuovi polmoni.
I medici a questo punto si divisero su cosa fare, dice Truog. Alcuni volevano staccare subito l’ECMO respiratorio per dare spazio ad altri malati che avevano ancora chance. Altri si rifiutavano, ben sapendo che il distacco dalle macchine avrebbe portato alla morte immediata un paziente che per il momento aveva una buona qualità della vita.
Un dilemma morale vero e proprio.
Per i parenti era intollerabile la scelta di un momento per spegnere l’ECMO medicina quando il loro congiunto era ancora vivo e cosciente, sapendo che sarebbe morto all’istante.
Alla fine i medici scelsero una soluzione condivisa con i parenti: non rimpiazzarono l’ossigenatore a membrana dell’ECMO, un pezzo che andava sostituito ogni due settimane per evitare coaguli di sangue. Dopo una decina di giorni, lentamente il macchinario perse efficacia e il paziente perse conoscenza, morendo poco dopo.
La soluzione permise ancora una volta di mettere la morte in standby. Per la precisione, permise di scegliere un momento della morte non prestabilito. Ma fu comunque atroce.
Il lungo addio
Karen Ayoub non aveva mai sentito parlare della ECMO finché suo marito non fu costretto a utilizzarla.
Philip Ayoub, 58 anni, era un uomo di grande carisma, amante della famiglia: la coppia aveva due gemelli e viveva a Greenwich, nel Connecticut. Un problema cardiaco congenito e di famiglia lo aveva costretto al suo primo bypass a soli 30 anni, con un secondo intervento appena 13 anni dopo.
Nel dicembre 2017 fu operato per un terzo bypass ma le cose andarono male: il suo cuore era più debole di quanto previsto. Perse conoscenza e fu trasportato d’urgenza al Centro Medico della Columbia University, che era provvisto di una ECMO medicina.
Karen Ayoub disse che quella di mettere sul marito nella macchina ECMO fu una decisione facile: “pensavo che meritasse ogni possibilità di sopravvivenza”. Ma non sapeva come avrebbe reagito.
Quando suo marito riprese conoscenza disse: “perché sono qui?”. Rimase in terapia intensiva per due mesi: un tubo per alimentarsi, uno per respirare, l’ECMO medicina e la dialisi.
ECMO, non è stato vano
Iniziò a soffrire di disturbi post-traumatici da stress, panico notturno ed altri effetti collaterali di natura fisica e psicologica. Nel frattempo tutte le opzioni di cura vagliate si rivelarono impraticabili, e presto fu chiaro che la procurata agonia di Philip sarebbe stata inutile.
Eppure Karen considera un regalo bellissimo aver potuto passare più tempo con suo marito, anche se poco. E Philip non passò un solo giorno, pur tra grandi sofferenze, senza ripetere costantemente “ti amerò per sempre, sarò sempre con te” a sua moglie e ai suoi figli.
Quando Karen disse a Philip che aveva deciso di far interrompere il supporto vitale, Philip non ebbe paura. Le disse “non vedo l’ora di sapere cosa c’è dopo”. Lo sedarono, abbracciarono e vegliarono fino alla fine.
ECMO una cura “inutile”
Mentre la famiglia Ayoub affrontò il destino con un commovente coraggio, altre famiglie non sono affatto pronte a lasciar andare una persona cara.
Alcuni pazienti in ECMO medicina hanno danni cerebrali severi ed irreversibili. Non sono in condizioni di partecipare ad una decisione sulla loro vita, e di fatto non hanno speranze di uscire vive dall’ospedale.
Per loro, scrivono diversi esperti di curie palliative, ECMO rappresenta “la più estrema forma di inutilità medica”. Per loro i medici dovrebbero avere l’autorità per terminare il supporto vitale in casi come questi, anche se contro il parere delle famiglie. Ok la morte in standby, ma c’è un limite a tutto.
C’è di mezzo la legge, purtuttavia. “In USA ci sono stati come Idaho, Oklahoma e New York che non permettono ai medici lo spegnimento di ECMO senza il consenso di pazienti o familiari,” dice Thaddeus Mason Pope, direttore dell’Health Law Institute alla Scuola di legge Mitchell Hamline di St. Paul, Minnesota. In altri stati come California, Texas e Virginia i medici possono invece procedere senza consenso.
Limiti etici della ECMO
Il dottor Robert Bartlett, un vero pioniere nel campo dell’ECMO e professore emerito alla University of Michigan, dice che quando l’ECMO diventa un limbo senza speranza si deve avvisare la famiglia e far capire che è giunta l’ora. “È doloroso e scortese dare alla famiglia la responsabilità di una scelta che non esiste,” dice.
Diversi ospedali si preparano a sfruttare questi brevi periodi di attesa prima di un distacco per aiutare le famiglie ad affrontarlo ed accettarlo.
Perché se c’è una morale dietro le promesse e i limiti di una “macchina dei miracoli” come l’ECMO medicina è che i miracoli non esistono. Ogni dispositivo avanzato per la salute del futuro porterà sempre con sé un carico gigantesco di aspettative e speranza. La sfida è temperare questa speranza con la realtà, perché sia chiaro che ogni innovazione presenta nuove risposte, ma pure nuove questioni etiche che ci fanno crescere tecnologicamente, emotivamente, spiritualmente.