Ci sono paesi abituati a detestare l’America, altri la ammirano, altri ancora la temono. A volte contemporaneamente. Ma provare pena per l’America è un sentimento relativamente raro.
È una riflessione che può nascere osservando le scene di protesta e violenza in USA, Europa e altrove, seguite alla barbara uccisione di George Floyd. All’inizio tutto sembrava terrificante. I tratti che un 40enne come me ha imparato a conoscere dall’infanzia, l’ottimismo, il fascino e l’informalità americana svaniti nel nulla della guerriglia. Il declino degli USA sembra una prospettiva più che plausibile.
Echi tornati di tanto in tanto, prima nei miei libri di storia, poi nella mia TV, ora sullo schermo di un monitor. La Corea, il Vietnam. L’11 settembre, il G8 a Genova. Richard Nixon, Donald Trump. Immagini periodiche che fanno a cazzotti coi miti del sogno americano, della terra dei liberi e delle opportunità.
Un distacco che solo apparentemente nasce da considerazioni morali o politiche. La vera scintilla cui consegue il resto, però, è di istinto, di estetica. La politica è solo il guscio che confeziona il declino USA.
Le ragioni dell’antiamericanismo
Un sentimento che nasce da ciò che si vede, talvolta davvero chiaramente, sotto la patina esteriore di questo paese. Una miscela letale di ingiustizie, ipocrisie, razzismo e bruttezza. In questo caso ancora più evidente, perché rappresentata nello scenario “casalingo”.
Non si tratta di contestare abusi o soprusi di qualche milizia in paesi lontani o di culture diverse. Si tratta di vedere con chiarezza tutto quello che davvero non piace. Gli abusi di uno stato di polizia. Lo sconsiderato menefreghismo incosciente del cittadino comune. Il razzismo strisciante che penetra in tutti i gangli della società. L’ipocrisia ossessiva del politicamente corretto che abbatte la forma e lascia in piedi la sostanza.
Diventa allora facile biasimare gli USA, dare voce ai pregiudizi che questo paese non si è mai sforzato troppo di impedire, pregiudizi sulle sue miserie che servono a coprire anche le nostre, quelle del “mondo occidentale”.
Se è l’estetica che conta, gli Stati Uniti oggi semplicemente non somigliano nemmeno lontanamente al paese a cui il resto di noi dovrebbe aspirare, invidiare o replicare.
L’alba del dragone
Il “mio” mito americano nasceva dalla considerazione che qualunque fosse la sfida morale o strategica che gli USA dovessero fronteggiare, c’era la sensazione che la sua vivacità politica corrispondesse alla sua potenza economica e militare. Che il sistema e la cultura democratica degli USA fossero così profondamente radicati da potersi sempre rigenerare.
Ora, qualcosa sembra cambiare. L’America sembra impantanata. Una nuova potenza è emersa sulla scena mondiale per sfidare la supremazia americana, la Cina, con un’arma che l’Unione Sovietica non ha mai posseduto: la potenza economica.
La Cina, diversamente dall’URSS, offre una immagine di crescente ricchezza, vitalità e progresso tecnologico (pur non ancora al livello degli USA) proteggendosi però con le distanze linguistiche e culturali con l’occidente. L’America è invece una sorta di “Modern Family”, come quella dell’omonima serie. Una famigliola pie a di difetti, spunti e contraddizioni, che mostra a tutti pregi e difetti. Oggi, dall’esterno, sembra che questa famiglia strana, disfunzionale ma di grande successo, stia collassando. I suoi pregi non bastano più ad impedire che i suoi difetti ne producano il declino, con annessi rischi perfino di guerra civile.
Gli USA come dramma collettivo
L’America, unica tra le nazioni, vive l’agonia di questa lotta esistenziale in compagnia di tutti noi. Il dramma americano diventa rapidamente il nostro dramma. Nelle settimane successive ai fatti di Minneapolis i manifestanti hanno protestato a sostegno di Black Lives Matter a Londra, Berlino, Parigi, Roma e altrove. Paesi nei quali la polizia è molto meno militarizzata e le armi hanno una diffusione bassissima rispetto agli USA. Gli USA continuano ad avere una straordinaria presa culturale sul resto del mondo occidentale.
La questione razziale si è impastata con altre rimostranze nazionali creando un quadro confuso. A Bristol le proteste hanno tirato giù la statua di un vecchio mercante di schiavi. Londra hanno preso di mira Winston Churchill, a Milano hanno imbrattato la statua di Indro Montanelli.
Per gli USA questo dominio culturale è un’arma a doppio taglio. Affascina talenti di tutto il mondo, li accoglie per studiare e costruire carriere, si ringiovanisce grazie ai “cervelli” di altri paesi. Ma questo dominio ha un costo: amplifica tutto, cose buone e cattive. Oggi, la bruttezza che è in mostra è amplificata e moltiplicata, anche dalla leadership.
È colpa di Trump?
Proteste di strada, esplosione dei conflitti civili e di classe, fallimenti istituzionali nella gestione di una pandemia, e soprattutto polarizzazione estrema di partigianerie inconciliabili. Tutto accade nell’ultimo anno del primo mandato del presidente più caotico, detestato e irrispettoso della storia americana moderna.
Certo, non tutto può essere attribuito a Trump. Il tycoon è in parte erede di tendenze nate prima, almeno dall’11 settembre: “the Donald” però sembra averle accelerate tutte, e contemporaneamente.
Etica o estetica?
In sintesi, allora: lo sbigottimento per ciò che viene dagli USA è estetico, come dicevo, o politico? Il declino USA è estetico o politico? Se fosse una questione di ingiustizie, bisognerebbe capire perché non ci sono state marce in Europa per l’incarcerazione di massa dei musulmani uiguri in Cina. Nulla anche per sostenere le proteste a Hong Kong, o contro violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita, o in Iran. Semplicemente, per la portata dell’egemonia culturale USA, l’omicidio di George Floyd e la risposta dell’autorità sono diventati metafore per tutto ciò che è sbagliato e ingiusto nel mondo. La potenza culturale americana è diventata un boomerang.
Le proteste sono un atto di sfida col quale il mondo occidentale (a partire dagli stessi cittadini americani) contesta i valori corrotti che tutto l’occidente ha assorbito, e che dei quali gli USA sono semplicemente considerati il paradigma.
Il Re è nudo
Il “sogno americano” e gli altri cliché sono stati improvvisamente, e forse irrimediabilmente, esposti dal cinismo Trumpiano? La controlettura in chiave cinica è in realtà iniziata con Obama, un cinico egli stesso, Nobel per una inesistente pace, e culminato in Trump, il cui abbandono dell’idea americana segna una rottura nella storia del mondo. Ma se l’America non crede più (e si vede) alla sua superiorità morale, cosa resta?
C’era un abisso con la carestia, l’orrore e le deportazioni nell’Unione sovietica. Oggi non sembrano esserci enormi differenze con la Russia di Putin. E con Pechino che sovrintende alla sorveglianza di massa dei suoi cittadini e incarcera un gruppo di minoranze etniche quasi in massa, quasi lo stesso si può dire della Cina. Gli USA come gli altri. Uguale. Si sospettava, per molti era evidente, ora lo è per tutti. E per bocca dello stesso Presidente, che nel 2017 ad una affermazione come “Putin è un assassino” rispondeva in tv: “ci sono molti assassini. Abbiamo molti assassini. Pensate che il nostro paese sia così innocente?”
Prima l’idea cinica che tutte le società fossero corrotte ed egocentriche era stato respinto in toto dagli USA. Oggi, le relazioni internazionali non contano sui valori, ma sulla valuta. Stop. Fine di potere, ideali e storia.
La presidenza di Trump è uno spartiacque, comunque la si veda. Non solo per gli Stati Uniti. ma per il mondo stesso: è qualcosa che non può essere annullato. Le parole una volta dette non possono essere rimangiate; le immagini che vengono visualizzate non possono essere invisibili.
Trump stesso è un’espressione del declino americano
Durante lui, dopo di lui, il diluvio. Rappresentato ancora da lui, se vincerà di nuovo alle prossime Presidenziali, o da Biden, un settuagenario sorretto da poteri trasversali non meno ipocriti, che deve essere protetto dalla folla perché è tra le categorie più vulnerabili al virus. La proiezione futura degli USA non è incoraggiante.
E l’idea che queste manifestazioni siano la premessa, quando non il riflesso, di un declino USA, una tabula rasa, si rafforza dato il periodo. Il Covid ha rafforzato in molti questo esatto concetto: niente sarà come prima.
Nel XVIII secolo i Paesi Bassi erano la potenza globale dominante. Oggi sono un paese di successo, ma hanno semplicemente perso il loro potere. Il crollo dell’Impero americano è scontato, è nelle cifre della Storia. È accaduto per tutti gli imperi. Bisogna solo cercare di capire cosa lo sostituirà, quando lo sostituirà e in seguito a quale scossone.
E qui i tempi potrebbero non essere così rapidi. Se gli USA si ritirano dal loro ruolo di unica superpotenza del mondo, per la maggior parte dei paesi nella loro orbita non esiste un’alternativa realistica alla sua leadership.
Cosa viene dopo
Quando Trump strappò gli Stati Uniti dall’accordo nucleare iraniano, tre grandi nazioni europee (UK, Francia e Germania) tentarono di mantenerlo in vita da soli, con scarso successo. Il loro potere combinato rispetto agli USA era irrilevante. In Libia, sotto OBAMA (non Trump: Obama), UK e Francia potevano solo intervenire a supporto. Come adolescenti inaffidabili.
La verità è che viviamo in un mondo americano e continueremo a farlo, anche se il declino USA sarà reale, anche se il potere americano svanirà lentamente. L’Europa che ha visto decine di migliaia di persone ad ascoltare Obama parlare alla Porta di Brandeburgo quando non era ancora presidente è la stessa che vede decine di migliaia di persone in piazza nonostante una pandemia globale a chiedere giustizia per George Floyd. Una comunità internazionale ossessionata dall’America e dominata da essa.
Se questo è un momento umiliante per gli USA, lo è anche per l’Europa. I paesi che potrebbero staccarsi dalla potenza americana evocando la volontà politica di farlo preferiscono opporre un’opposizione simbolica sperando in un cambio di leadership.
Declino USA: non tutto è perduto?
Il crollo del Muro di Berlino e la fine dei due blocchi hanno rappresentato l’inizio dei problemi seri. E il problema più serio dell’America è che il resto del mondo oggi può vedere quanto il paese sia sceso al di sotto dei suoi risultati. È difficile contestare alcune delle critiche mosse agli USA: irrimediabilmente razzista, eccessivamente ambivalente con la povertà e la violenza, luogo di armi ovunque e polizia brutale.
Eppure questa è anche una nazione che non è la Russia o la Cina, per quanto Trump possa o voglia farci credere. A Mosca e Pechino, per cominciare, non sarebbe possibile protestare con questi numeri e con tale veemenza, anche se gli obiettivi delle proteste sono confusi. Un rapper durante una conferenza stampa o un leader delle proteste che parla a una folla di manifestanti a Minneapolis sembrano oratori più abili, potenti ed eloquenti di quasi tutti i politici europei a cui riesco a pensare.
Non si può dire lo stesso né del presidente USA né del candidato democratico che vuole sostituirlo.
Chi è senza peccato
C’è da dire che per quanto vi sia evidente razzismo in America, in Europa permangono pregiudizi sottili, profondi e pervasivi. I fallimenti europei possono essere meno ovvi ma non meno prevalenti.
Le opportunità per il successo e l’avanzamento delle minoranze etniche e nere in Europa sono forse maggiori?
Basta guardare la composizione del Parlamento europeo (o qualsiasi punto vendita, studio legale o consiglio di amministrazione) per capire.
Negli Stati Uniti, parliamoci chiaro, il mondo vede se stesso, ma in una forma estrema: più violenta e libera, ricca e repressa, bella e brutta. La verità è che non ci piace ciò che vediamo quando guardiamo negli USA, perché vediamo noi stessi.