Gli scienziati sono da tempo alla ricerca di modi per aiutare queste persone a recuperare una certa qualità di vita. Ora, un gruppo di ricercatori ha sviluppato una protesi che, finora, ha migliorato la memoria del 50% ai pazienti che l’hanno provata. Si tratta di un’ottima notizia per coloro che soffrono di lesioni cerebrali o di malattie che causano la perdita di memoria.
Un ippocampo elettrico
Questa avveniristica forma di stimolazione cerebrale “imita” il modo in cui il cervello crea i ricordi. Al momento, è un sistema piuttosto basilare e usa solo un elettrodo che deve essere posizionato in profondità nel cervello. Difficile immaginare la sua adozione su larga scala nella forma attuale, ma i suoi risultati sono notevolissimi, e potrebbe ottenere risultati ancora migliori con un design più sofisticato.
Le possibilità di un dispositivo del genere sono sbalorditive. Avere un “sostituto” elettrico dell’ippocampo sarebbe una svolta.
Come funziona l’ippocampo
L’ippocampo è l’area del cervello vitale per l’archiviazione e la creazione della memoria. Quando un individuo sperimenta qualcosa di nuovo, l’ippocampo aiuta a codificare le informazioni e a immagazzinarle per poterle poi recuperare.
I test sui dispositivi
I ricercatori della DARPA hanno testato la loro protesi su animali e su alcuni esseri umani affetti da epilessia. Due diverse versioni del dispositivo hanno migliorato la memoria di 24 persone. La differenza (comunque lieve) dei risultati è dovuta all’area di posizionamento dell’elettrodo, diversa da individuo a individuo per adattarsi alle sue lesioni cerebrali.
La prima versione del sistema era stata progettata per replicare gli schemi naturali del cervello. Prendeva una media dei modelli presenti nel cervello della persona e poi stimolava un modello simile con correnti elettriche. La seconda versione replicava più da vicino il funzionamento dell’ippocampo. L’idea dei ricercatori è che, proprio in ragione delle differenze tra pazieni, alcuni risultati potranno essere ancora migliori.
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Human Neuroscience (vi linko qui l’articolo).