La nozione di “replicatore” è radicata nel nostro immaginario collettivo, e ci porta dritti in un futuro all’insegna di Star Trek. Hai bisogno di un pasto? Premi un bottone sul replicatore. Ti serve una chiave inglese? Premi lo stesso bottone. Ogni cosa che desideri può essere fabbricata sul posto, la fantascienza è libertà.
Ma è solo fantascienza?
Il concetto di costruire le cose “atomo per atomo” è stato proposto per la prima volta da Richard Feynman in un fantastico discorso del 1959, che ha forse contribuito a dare impulso e fascino alle ricerche sulla nanotecnologia. L’idea ha poi preso piede negli anni ’80 e ’90, alimentata dal lavoro scientifico e popolare di K. Eric Drexler, l’ingegnere e teorico conosciuto come il padre della nanotecnologia.
Che possibilità abbiamo di costruire un replicatore?
Secondo Feynman non esiste alcuna legge fisica che proibisca di assemblare molecole e atomi in questo modo. Non solo è plausibile, ma siamo noi stessi l’esempio vivente di una “nanofabbricazione”. Le cellule possiedono la necessaria strumentazione per usare i progetti (DNA) e per codificare i messaggi (RNA) che forniscono le istruzioni alle “fonderie” molecolari (ribosomi).
Ma la natura non è più l’unico “replicatore” (il termine più corretto sarebbe “nanofabbricatore”, ma continuerò ad usare anche quello ‘popolare’. Perchè sono un Trekkie, ecco, perchè). La creatività umana ha già concepito strumenti sintetici per operare su scala anche infinitesimale, ma c’è chiaramente qualcosa da mettere a punto.
Che problemi ci sono?
Gli ostacoli alla progettazione pratica di un replicatore potrebbero riempire un libro. E di certo hanno riempito un famoso dibattito tra lo stesso Drexler e il chimico premio Nobel Richard Smalley. Smalley ha sottolineato il problema delle “dita appiccicose” (sticky fingers problem) e delle “dita grasse” (fat fingers problem). Dietro nomi semplici, questi problemi rappresentano in modo chiarissimo le difficoltà insite nella manipolazione meccanica di molecole e atomi. Il nostro corpo è un esempio di come si possono creare cose, ma non è facile “toccarle” quando sono così piccole.
Smalley ha suggerito che i nanofabbricatori potrebbero operare attraverso processi chimici, come quelli che avvengono all’interno delle cellule. Tuttavia, anche questa prospettiva presenta significative lacune, come una limitata varietà di molecole che possono essere prodotte e la necessità di sviluppare un vasto campo della chimica che, semplicemente, è ancora ignoto.
Replicatore, prevale la sfiducia?
Per farla breve: il pensiero scientifico degli ultimi anni si è consolidato sulle posizioni di Smalley, frenando l’impulso alla ricerca sul replicatore. Ciò nonostante, la fiducia di alcuni scienziati nelle possibilità che oggi i nanobot (robot di dimensioni nanometriche) e domani i nanofabbricatori rivoluzionerebbero la società resta inalterata. Oggi, la realizzazione più vicina a una nanofabbricazione pratica è la reazione a catena della polimerasi (PCR), un’invenzione fondamentale alla base della diffusione del sequenziamento del DNA, dei test sulle malattie infettive e delle indagini forensi.
Come funziona? Pensatelo un po’ come il “timbro clone” del Photoshop. Con una specifica miscela di sostanze chimiche, chiamate “reagenti” e una macchina speciale, chiamata “termociclatore”, il PCR duplica un determinato filamento di materiale genetico centinaia di milioni di volte.
In sintesi
La nanofabbricazione è sicuramente possibile, sebbene gli ostacoli siano enormi. Ma la rivoluzione che potrebbe produrre per la civiltà umana significa che l’idea di avere un replicatore è troppo allettante per rinunciarci. Il premio vale la pazienza, e gli esseri umani continueranno a inseguirlo. Scienza di frontiera, insomma, ma scienza. E tanto basta.