Mentre l’ONU esorta il mondo ad abbandonare rapidamente i combustibili fossili, nuovi documenti confermano che gli Emirati Arabi, padroni di casa della COP28, vogliono esattamente il contrario. L’obiettivo? Espandere petrolio e gas siglando nuovi accordi con una serie di Paesi, Italia compresa. Una presa in giro senza precedenti.
I documenti ottenuti dal Center for Climate Reporting e già anticipati in una versione ridotta dalla BBC mostrano gli Emirati intenti ad utilizzare la COP28 per perseguire espansione e nuovi investimenti in petrolio e gas. Uno schiaffo pesante alla lotta al cambiamento e un segnale del fatto che forse questa formula di conferenza è irrimediabilmente compromessa.
La COP28 come copertura per gli affari sporchi
I report diffusi includono “punti di discussione” per le conversazioni fra il Sultano Ahmed Al-Jaber, presidente della COP28 e delegazioni di almeno 28 Paesi. Non stupisce, considerato il fatto che Al-Jaber è capo della compagnia petrolifera emiratina. E che ha già avuto modo di esprimere (in degli audio diffusi negli scorsi giorni) la sua posizione favorevole all’uso dei combustibili fossili.
Un petroliere a capo della Conferenza sul Clima: esiste al mondo qualcosa di più incredibilmente dissonante?
COP: da “Conference of the Parties” a “Conference of Petroleum” il passo è breve.
L’obiettivo della Presidenza, stando ai report summenzionati, è quello di sfruttare la piattaforma di discussione per proporre joint venture in nuovi progetti che contemplano gas e petrolio. Ad esempio, infrastrutture per esportare gas liquefatto verso Cina e Asia dall’Australia o dal Canada. Agli occhi del mondo, mega-investimenti infrastrutturali spacciati per “decarbonizzazione”.
Ma gli Emirati non sono soli. Documenti correlati rivelano che anche l’Arabia Saudita è impegnata a promuovere consumo di carburanti in Africa e Asia. Il Regno punta a fidelizzare nuovi “clienti” dipendenti da risorse altamente emissive e redditizie. Come? Con un programma denominato Oil Development Sustainability Programme (ODSP) che di fatto supporta l’adozione di auto e carburanti superinquinanti.
Mohammed Adow, veterano attivista e policy advisor keniano, dirige PowerShift Africa, un think tank che promuove la giustizia climatica. E definisce lo stratagemma di “Oil Country” e lobbisti del fossile “semplicemente disgustoso”. Sono come spacciatori, dice, che stanno trasformando interi Paesi in loro clienti “tossicodipendenti”, senza alcuna vergogna o enunciata pretesa di sostenibilità.
Che ruolo avrà l’Italia?
Non è chiaro se e con quali paesi gli Emirati abbiano effettivamente concluso accordi petroliferi già durante i colloqui di avvicinamento alla COP28 di Dubai. Ma la domanda ricorrente è: quali nazioni hanno legittimato questi piani o addirittura vi hanno aderito? Per nostra sfortuna, molto probabilmente c’è anche l’Italia.
I recenti colloqui tra il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni e i rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti, incluso il Sultano Al Jaber, segnano un rilevante rafforzamento dei rapporti tra Italia e Emirati.
Durante la sua visita ad Abu Dhabi nel marzo 2023, Meloni ha incontrato il Presidente degli Emirati, Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan, esprimendo il forte desiderio di entrambe le parti di ricostruire eccellenti relazioni e amicizia, rivitalizzando così un partenariato strategico storico ma recentemente incrinato. Durante la visita, è stato firmato un Memorandum d’Intesa tra Claudio Descalzi, CEO di Eni, e lo stesso Al Jaber. L’accordo si concentrerebbe formalmente sulla “riduzione delle emissioni di gas, lo sviluppo dell’idrogeno verde e blu, e tecnologie per la cattura e lo stoccaggio della CO2”. Alla luce degli ultimi sviluppi, mi chiedo quale sia la vera direzione ultima di questi accordi.
Niente di nuovo
Se avete maturato sempre più dubbi sull’utilità di queste conferenze sul clima e sui loro bei proclami già più volte disattesi, sappiate che la Storia è fatta per ripetersi. Sempre.
Questa situazione ricorda molto da vicino le strategie adottate dalle compagnie di tabacco, che, di fronte a restrizioni nei mercati sviluppati, si sono rivolte ai mercati emergenti per mantenere i loro profitti. In modo simile, le nazioni produttrici di petrolio cercano di sfruttare nuovi mercati per continuare a trarre profitto da un settore in declino.
E lo fanno trasformando COP28 in un nodo di interscambio per veicolare i loro interessi. Sollevato il velo su questa realtà, non resta che il rammarico. Chiudere la discussione sul clima in una torre d’avorio, un carrozzone sempre più slegato dalla realtà, non ha fatto altro che renderlo facile preda di forti interessi economici che lo hanno eroso dall’interno.
COP28: e adesso?
Lungi da me l’idea di gettare il bambino con l’acqua sporca (perché inquinata), ma la compromissione di COP28 è una realtà con la quale dobbiamo assolutamente misurarci. Non dubito sul fatto che ci sia un enorme numero di persone, organizzazioni e paesi autenticamente impegnati nella lotta all’inquinamento e ai cambiamenti climatici. Se da queste grandi kermesse non ne caviamo un ragno dal buco, però, ci sono dei motivi ben precisi.
Cosa fatta, capo ha.
Appurato che riporre aspettative in una “sagra globale” dove nei padiglioni tinteggiati di verde si vendono fossili e, fondamentalmente, si inganna la popolazione mondiale, la sfida ora è come la comunità internazionale e i movimenti ambientalisti risponderanno a queste tattiche.
Riusciranno a contrastare l’influenza di Big Oil, non solo nelle loro politiche interne ma anche nel contesto globale della lotta contro il cambiamento climatico? Qualcuno, almeno qualcuno (vi scongiuro) non la prenda come una domanda retorica.