Quando nel 2015 il CEO di Zume, Alex Garden, promise di “automatizzare tutto” nel mondo della pizza grazie a robot e intelligenza artificiale, gli investitori credettero di aver trovato la nuova frontiera del food delivery. Peccato che i sogni di gloria di Zume si siano presto infranti contro limiti tecnologici e incapacità gestionale: oggi l’azienda è fallita dopo aver bruciato 445 milioni di dollari. La sua lezione è preziosa.
L’ambiziosa idea imprenditoriale
L’idea innovativa di Zume ebbe origine nel 2013, quando Alex Garden depositò un brevetto per un sistema di cottura di cibo durante la consegna. Il concetto era rivoluzionario: utilizzare furgoni attrezzati come ristoranti mobili per cuocere pizze a pochi minuti dal cliente, garantendo freschezza e qualità.
Nel 2015, Garden fondò Zume Pizza insieme a Julia Collins, unendo la sua visione tecnologica all’esperienza nel settore alimentare di Collins. Questo connubio sembrava promettente, con l’obiettivo di reinventare il modo di cucinare e consegnare cibo di qualità.
La scommessa sull’automazione spinta
Garden è ossessionato dall’automazione: vuole sostituire la preparazione manuale con bracci robotici che spalmano salsa e stendono l’impasto. I primi test funzionano. I primi.
Nonostante l’innovazione iniziale, però, Zume incontra ostacoli tecnologici significativi. L’obiettivo di Garden di automatizzare la preparazione della pizza tramite bracci robotici che hanno spalmato salsa e steso impasto è afflitto da problemi pratici notevi e imprevisti. I furgoni si dimostrano problematici, il formaggio scivola via dalla pizza a causa della pendenza e i robot si guastano spesso. Intoppi pratici che sottolineano le sfide nell’implementare la tecnologia high-tech in un’attività complessa e variabile come la cucina.
Ma Zume ormai guarda oltre la pizza: vuole diventare “l’Amazon del cibo”, reinventando ogni aspetto della filiera.
E come è andata “oltre la pizza”?
Dal 2018, Zuma inizia a distaccarsi dalla produzione di pizza, puntando a diventare una piattaforma per camion alimentari automatizzati sotto l’ombrello più ampio di Zume, Inc.
L’azienda inizia a concedere in licenza la sua tecnologia di automazione e inizia a vendere imballaggi per alimenti, detenendo brevetti per scatole di consegna alimentare sostenibili. Nel novembre 2018, Zume raccoglie $375 milioni da SoftBank, raggiungendo una valutazione di $2,25 miliardi.
Altro che pizza, giusto? Nel 2019 acquista Pivot, un’azienda che produce imballaggi a base vegetale e si concentra su produzione e imballaggio automatizzati per altre aziende alimentari. Pianifica la costruzione di un impianto di produzione di 6500 metri quadri (70.000 piedi quadrati) in California del Sud per lanciare Zume Packaging.
Nel 2020, Zume vende la sua tecnologia per la pizza (chissà ora a che punto sarà), e licenzia buona parte del personale. La verità? Le infinite idee di Garden non trovano riscontri commerciali. I costi lievitano e le “innovazioni” rivelano limiti concreti. Il Covid ci mette il suo.
Oggi Zume chiude i battenti con poco clamore. La pizza è venuta una schifezza, tutta bruciata. Con lei, bruciato anche mezzo miliardo di dollari tra facoltosi investitori e speranzosi fedeli della tecnologia come panacea di tutti i mali.
Anche la pizza “s’adda sapè fa”
Serve studiare molto bene casi come questi (un po’ come quelli di Theranos o FTX), perché sono paradigmatici. Come spesso accade, i fondatori hanno proseguito le loro carriere in altri progetti, ma questo fallimento lascia interrogativi aperti sul grado di comprensione di Silicon Valley nei confronti di settori tradizionali che tenta di “rivoluzionare” con l’high-tech.
Il caso Zume sembra dimostrare i rischi di applicare soluzioni tecnologiche ad ambiti complessi come la ristorazione senza conoscerne a fondo dinamiche ed esigenze. Servono forse più umiltà e connessione con il mondo reale? Meditate, gente. Meditate.
E fatevi una bella Margherita, ve lo dice un napoletano.