Un nuovo studio condotto dalla professoressa Laura Alfaro della Harvard Business School e dal professor Davin Chor della Tuck School rivela che, nonostante gli sforzi dell’Occidente per ridurre la dipendenza dalla Cina, le catene di approvvigionamento globali non l’hanno per nulla intaccata.
La grande “riorganizzazione” di USA e alleati, infatti, ha spostato la partecipazione cinese nelle catene di approvvigionamento globali verso altri paesi, con conseguenti costi più elevati per i consumatori occidentali.
La guerra è ancora fredda, si. Ma sembra più tiepida ora.
Negli ultimi anni, ne abbiamo parlato diverse volte, le relazioni tra l’Occidente e la Cina si sono notevolmente deteriorate, con conseguenze significative per le catene di approvvigionamento globali. Le tensioni politiche ed economiche tra le due parti, che nel caso Occidentale portano per lo più la bandiera USA, hanno portato a una pletora di contromisure.
Tentativi volti a ridurre la dipendenza dall’economia cinese? Dazi, restrizioni agli investimenti e sanzioni. Uno studio suggerisce che questi sforzi non stanno avendo l’effetto desiderato, e che la Cina continua a mantenere un ruolo significativo nelle catene di approvvigionamento globali.
Occidente e Cina, legami intrecciati
Lo studio, intitolato “Global Supply Chains: The Looming ‘Great Reallocation’ “, ha analizzato gli ultimi 40 anni di dati sulle catene di approvvigionamento globali, concentrandosi sugli eventi del periodo 2017-2022. I ricercatori hanno scoperto che, a dispetto delle attese, gli sforzi dell’Occidente per sganciarsi dalla Cina stanno solo producendo più costi per i consumatori occidentali.
Secondo i dati (che vi linko qui), le misure adottate dall’Occidente per ridurre la dipendenza dalla Cina hanno portato a una riduzione delle importazioni dirette dal colosso asiatico, ma hanno anche spostato la partecipazione cinese nelle catene di approvvigionamento globali verso altri paesi. Ad esempio, la Cina ha intensificato il commercio e gli investimenti diretti esteri (IDE) con paesi come il Vietnam, il Messico e la Malaysia, che a loro volta stanno aumentando le loro esportazioni verso l’Occidente.
Una grande riorganizzazione che sembra una porta girevole
Il fenomeno è stato definito dalla professoressa Alfaro “grande riorganizzazione”. Ma cosa si starebbe, anzi: come si starebbe riorganizzando l’economia in Occidente? I due principali capisaldi mostrano risultati negativi. A conti fatti, la dipendenza dalla Cina non è diminuita.
In secondo luogo, la partecipazione cinese nelle catene di approvvigionamento globali verso altri paesi ha reso la mossa del tutto inefficiente in termini di costi. Perché i costi di produzione in paesi come il Vietnam e il Messico sono superiori a quelli della Cina. E questo si traduce in prezzi più elevati per i beni finiti.
La situazione è ulteriormente complicata dalle recenti notizie. Anche l’Unione Europea ha recentemente sospeso l’accordo sugli investimenti con la Cina, e in chiave NATO c’è scontro sia sul piano delle telecomunicazioni che della politica estera.
Occidente e Cina, due cifre
Secondo un rapporto ormai famoso del McKinsey Global Institute, la Cina rappresenta il 28% della produzione manifatturiera globale, rispetto al 18% degli Stati Uniti e al 15% dell’Unione Europea.
Che si fa?
Tutto ciò che le “economie di guerra” ignorano nel loro gioioso percorso verso conflitti e catastrofi è che la dipendenza tra le economie è una garanzia di futuro per il pianeta. Non c’è alcuna altra strada. Nessuna che non sia, presto o tardi, quella di una terra unita e un’umanità integrata.
Più tempo passa, più ostacoli ci sono. E più ostacoli ci sono, più la nostra specie rischia il tracollo economico, sociale, sanitario. Per affrontare queste sfide, è necessario un approccio più collaborativo e coordinato tra i paesi occidentali e la Cina.
Tutto il resto è follia suicida.