Quando si pensa a un’indagine criminale, vengono in mente detective che raccolgono meticolosamente prove sulla scena: armi, fluidi biologici, impronte di scarpe e digitali. Ma questo è solo l’inizio del tentativo di ricostruire gli eventi e identificare le persone coinvolte. Al centro del processo c’è il “principio dello scambio” formulato dal criminologo francese Edmond Locard negli anni ’20: “Ogni contatto lascia una traccia”.
Oggi, una nuova ricerca pubblicata su Genes (ve la linko qui) porta questo principio nell’era della microbiologia forense, dimostrando come i batteri che vivono sulla nostra pelle lascino tracce uniche sui vestiti che indossiamo. Tracce che durano mesi e possono essere usate per identificarci in modo inequivocabile.
Dalle tracce visibili a quelle invisibili: l’evoluzione delle scienze forensi
Ai tempi di Locard, le tracce cercate sulla scena del crimine erano tipicamente quelle visibili al microscopio, come granelli di polline, sabbia e fibre. Prove utili per ricostruire la dinamica degli eventi, ma con un limite: non sempre associabili a un individuo specifico. Negli anni, le scienze forensi hanno cercato di superare questo limite, spostando l’attenzione su tracce sempre più minutamente legate all’unicità biologica di ogni persona: impronte digitali, DNA, residui di fluidi corporei.
Oggi, una nuova frontiera si affaccia all’orizzonte di ogni campo di indagine: il microbioma umano, ovvero l’insieme dei microrganismi che vivono sul nostro corpo e al suo interno. Batteri, funghi e virus che ci accompagnano per tutta la vita, formando comunità uniche e stabili nel tempo, specifiche per ogni individuo e per ogni area del corpo. Un vero e proprio “codice a barre microbico” che ci identifica in modo inequivocabile, e che può essere trasferito su tutto ciò con cui entriamo in contatto, compresi i vestiti che indossiamo.
Il “microbioma da contatto”: una firma indelebile sui vestiti
È proprio sul trasferimento del microbioma dalla pelle ai vestiti che si è concentrato lo studio condotto da un team internazionale di ricercatori. L’obiettivo era capire quanto del microbioma individuale viene trasferito sui vestiti, per quanto tempo persiste e se alcuni microbi possono essere più utili di altri per l’identificazione.
Per scoprirlo, i ricercatori hanno fatto indossare a due volontari delle t-shirt di cotone per 24 ore. Poi hanno conservato le magliette in un ambiente controllato per sei mesi, insieme ad altre non indossate usate come controllo. A intervalli regolari, campioni di entrambi i tipi di t-shirt sono stati prelevati, congelati e analizzati per identificare le specie microbiche presenti.
I risultati hanno mostrato che i due volontari hanno trasferito microbi distinti e riconoscibili sulle magliette, unici per ciascun individuo. Inoltre, è stato possibile distinguere tra capi indossati e non indossati anche dopo un periodo prolungato. Il microbioma è rimasto stabile sugli indumenti indossati fino a 180 giorni.
Questioni aperte e prospettive di indagine
Lo studio apre affascinanti prospettive per le indagini forensi, ma solleva anche nuove domande. Ad esempio, quanto può essere contaminato il microbioma trasferito sui vestiti da altri capi o dall’ambiente? E quanto le diverse superfici dei tessuti influenzano la persistenza delle popolazioni microbiche?
Inoltre, occorrerà capire meglio come il microbioma possa integrarsi con altre tracce biologiche, come DNA e fluidi corporei, per rafforzare il potere identificativo delle prove. E non ultima, sarà cruciale affrontare le implicazioni etiche e legali dell’uso del microbioma nelle indagini, a tutela della privacy e dei diritti individuali.
La scoperta che il nostro microbioma lascia un’impronta indelebile e unica sui vestiti che indossiamo, comunque, può davvero rivoluzionare il modo in cui viene condotta un’indagine. Ed anche aprire nuove strade per la ricerca medica, aiutandoci a capire meglio come il nostro microbioma interagisce con l’ambiente e influenza la nostra salute.