“Rainbow washing” e “blackwashing”: sono questi gli ultimi termini con cui si può definire l’ipocrisia delle grandi aziende multinazionali riguardo ai temi dell’inclusione e della lotta alle discriminazioni.
Che si tratti del Pride Month o delle proteste contro il razzismo sistemico, le corporation sembrano sempre più interessate a cavalcare l’onda del momento con iniziative di facciata, salvo poi tornare al business as usual non appena i riflettori si spengono. Una tendenza preoccupante che mette in luce le contraddizioni di un sistema diviso tra le crescenti aspettative etiche dei consumatori e la “solita” fame di profitti.
Arcobaleni ovunque, bandiere e pugni alzati: l’attivismo di facciata delle aziende
Giugno, lo saprete, è il mese del Pride, e puntualmente le grandi aziende si tingono dei colori dell’arcobaleno. Loghi rivisitati, campagne pubblicitarie ad hoc, dichiarazioni di sostegno alla comunità LGBTQ+. Tanto zelo, al punto da sollevare sempre più dubbi sull’autenticità dell’impegno. Un fenomeno ormai noto come “rainbow washing”, ovvero l’uso strumentale delle tematiche LGBT per migliorare la propria immagine e attirare nuovi consumatori.
La stessa dinamica che si ripete anche quando a infiammare le piazze sono le proteste contro il razzismo e le discriminazioni. In questi casi, le aziende si affrettano a pubblicare post di solidarietà, a lanciare iniziative di sensibilizzazione, a promettere maggiore inclusione. Salvo poi, troppo spesso, tornare alla normalità non appena le acque mediatiche si calmano.
Dai post alle policy: il divario tra parole e fatti
Il problema, in sostanza, non sta tanto nelle dichiarazioni di intenti, quanto nella loro traduzione in azioni concrete e durature. Dietro le campagne patinate e i messaggi di sostegno, si nasconde spesso un vuoto di contenuti e di impegno reale.
Le aziende sembrano più interessate a capitalizzare sul momento che a promuovere un vero cambiamento. Si tratta di operazioni di facciata, che non incidono sulle politiche aziendali, sulla composizione dei board, sulle condizioni dei lavoratori.
A riprova di ciò, basti pensare a come, passata l’onda mediatica, molte aziende taglino proprio sui programmi di diversity e inclusione. Un fenomeno evidenziato da numerosi studi, che mostrano come le posizioni legate alla cosiddetta DEI (Diversity, Equity, Inclusion) siano spesso le prime a saltare in caso di ristrutturazioni o difficoltà economiche. Negli USA, lo scorso anno le posizioni di lavoro relative al DEI (aumentate dopo l’uccisione di George Floyd) sono di nuovo diminuite, e tantissimo: del 44%.
Black, Green, Future, Rainbow washing: l’ipocrisia del “woke capitalism”
Il problema di fondo, perdonatemi la “filosofia”, è sempre lo stesso. Le persone, e volutamente dico “persone”, che mi repelle il termine “consumatori”, vogliono essere più consapevoli di ciò che comprano, e di chi gli vende le cose.
La risposta è un’empatia di facciata. È una forma di capitalismo che si ammanta di consapevolezza sociale solo quando fa comodo, senza mai mettere in discussione i propri meccanismi di fondo. È tutto un “lavare”: sui temi razziali, su quelli inclusivi, sull’ecologia. Su tutto. E più si “lava”, più le cose sembrano opache. Una tendenza pericolosa, perché rischia di svuotare di significato le battaglie per i diritti e di generare un diffuso senso di sfiducia nei consumatori.
Le aziende non possono più permettersi di fare ‘le piacione’. Le persone, soprattutto le nuove generazioni, pretendono coerenza e autenticità. Pretendono che i valori sbandierati si riflettano nell’intera catena produttiva, nelle politiche di assunzione, nelle scelte di investimento.
Da Barilla a Volkswagen: se l’azienda bluffa
Negli ultimi anni i sospetti di rainbow washing hanno coinvolto diversi marchi, anche noti. Uno dei casi più eclatanti è quello di Barilla: nel 2013, dopo alcune dichiarazioni omofobe del CEO Guido Barilla, l’azienda ha cercato di riabilitare la sua immagine adottando loghi arcobaleno durante il Pride Month, senza però intraprendere azioni concrete a sostegno della comunità LGBTQ+.
Negli USA, la catena di fast food Chick-fil-A è finita nell’occhio del ciclone nel 2019: ha lanciato un “sandwich arcobaleno” per il Pride, ma è stata accusata di ipocrisia per aver donato in passato milioni di dollari a organizzazioni contrarie ai diritti LGBTQ+.
Simile il caso di Target, che nel 2016 ha proposto una linea di merchandising arcobaleno senza però devolvere parte dei proventi a cause LGBTQ+ o dimostrare un reale impegno.
In Germania, nel 2018, Volkswagen è stata criticata per una campagna con una coppia gay per promuovere un’auto durante il Pride, senza però aver dimostrato una concreta attenzione ai diritti LGBTQ+ al di là dell’iniziativa pubblicitaria. L’elenco potrebbe essere molto più lungo, ed è puramente indicativo di un problema.
Rainbow washing, verso un nuovo paradigma di responsabilità sociale
Di fronte a queste critiche, alcune aziende stanno cercando di cambiare rotta, di passare dalle parole ai fatti. Si moltiplicano le iniziative di sostegno concreto alle comunità discriminate, i programmi di formazione interna sui temi della diversità, le partnership con organizzazioni impegnate sul campo.
Ma la strada è ancora lunga e richiede un ripensamento profondo del rapporto tra business e società. Un ripensamento che metta al centro la responsabilità sociale non come una moda passeggera, ma come un pilastro fondante dell’agire imprenditoriale.
Solo così le aziende potranno trasformarsi da “attiviste part-time” a vere protagoniste del cambiamento. E contribuire a costruire una società più giusta e inclusiva, andando oltre i braccialetti colorati e i gesti simbolici.
Il “rainbow washing”, il “blackwashing” e altre cose simili devono sparire. E anche alla svelta. Come dice un vecchio adagio, “non basta sembrare, bisogna essere”.