Il 18 giugno 2023 rimarrà una data indelebile nella storia dell’esplorazione sottomarina. Quel giorno, il sommergibile Titan implodeva durante un’immersione verso il relitto del Titanic, portando con sé la vita di cinque persone e scuotendo un’industria fino ad allora avvolta da un misto di mistero e fascinazione. Ora, mentre una nuova missione si prepara a spingersi fino a quasi 4000 metri di profondità, il dibattito sulla sicurezza è più acceso che mai. Tra innovazioni tecnologiche, materiali sperimentali e protocolli tutti da scrivere, il futuro delle esplorazioni sottomarine è un rebus complesso, in cui il confine tra scoperta e rischio è ancora tanto, forse troppo sottile.
Nuova missione, vecchie domande
A meno di un anno dalla tragedia del Titan, una nuova spedizione finanziata dai miliardari Larry Connor, un investitore immobiliare, e Patrick Lahey, co-fondatore di Triton Submarines, si prepara a sfidare gli abissi dell’Atlantico del Nord. L’obiettivo? Raggiungere di nuovo il relitto del Titanic a bordo di un sommergibile di nuova concezione, con una calotta in acrilico, progettato dalla stessa Triton. Mentre i preparativi fervono, le domande sulla sicurezza di queste missioni si fanno sempre più pressanti. Chi certifica questi veicoli? Quali sono i protocolli per testarne l’affidabilità? E soprattutto, ne vale davvero la pena, considerati i rischi?
Come spiega Hanumant Singh, professore di ingegneria elettrica e informatica alla Northeastern University, il problema delle certificazioni per i sommergibili è un terreno largamente inesplorato. Certo, esistono protocolli per testare la resistenza alla pressione dei materiali tradizionali come alluminio e titanio. Ma quando si parla di nuovi materiali, come le grandi cupole di vetro proposte per alcuni sommergibili, la questione si fa più complessa. Gli enti preposti, semplicemente, non hanno abbastanza esperienza con questi veicoli per sapere cosa sia giusto o sbagliato.
A un anno dal Titan, quello tra rischi e “benefici” è ancora un equilibrio delicato
La domanda aleggia, si immerge, riemerge. È sempre lì. Perché spingere per queste missioni, se i rischi sono così alti? Secondo Singh, c’è qualcosa da dire sull’importanza di avere una persona laggiù, per avere una visione in prima persona. Certo, oggigiorno i veicoli robotici possono fare praticamente tutto, e in modo molto più sicuro. Ma c’è un fascino innegabile nell’esplorazione umana, sia essa nello spazio o nelle profondità marine.
È un po’ come la differenza tra inviare un telescopio nello spazio e andarci di persona. Il James Webb può darci una quantità incredibile di informazioni sull’universo, eppure c’è ancora chi sogna di volare tra le stelle su un Blue Origin o uno Space Shuttle. Perché? Perché è una storia migliore da raccontare. Perché c’è gusto nell’andare a fare le cose di persona. Ok. Alzo le mani.
Il bivio è sempre lì
Da una parte, la spinta verso l’innovazione e l’esplorazione di nuove frontiere. Dall’altra, la necessità di sviluppare protocolli e certificazioni rigorosi, per garantire che queste missioni possano essere condotte nel modo più sicuro possibile. Non sarà un percorso facile. Ci vorrà tempo, ricerca e, inevitabilmente, qualche battuta d’arresto lungo la strada. Ma se c’è una lezione che possiamo trarre dalla tragedia del Titan, è che la sicurezza non può essere data per scontata. Non quando si spingono i confini dell’esplorazione umana. Non quando sono in gioco delle vite.
Forse, un giorno, avremo sommergibili in grado di portarci nelle profondità più remote degli oceani con la stessa facilità con cui prendiamo un aereo. Fino ad allora, è nostro dovere procedere con cautela, mettendo sempre la sicurezza al primo posto. Perché il confine tra scoperta e disastro, come abbiamo imparato a nostre spese, può essere sottile come la calotta di un sommergibile. Ne riparleremo.