L’adolescente triste è depresso? Ancora: l’adolescente irrequieto ha un disturbo dell’attenzione? L’adolescente ribelle soffre di disturbo oppositivo-provocatorio? La facilità con cui il comportamento degli adolescenti viene sempre più etichettato con diagnosi psichiatriche mi inquieta profondamente.
Viviamo in una società che ha esteso il modello medico-psichiatrico ben oltre i suoi confini naturali, patologizzando ogni forma di sofferenza umana. In questo scenario, quanto del “disagio adolescenziale” è realmente patologico e quanto è invece la normale risposta a un mondo in rapida trasformazione?
La sottile linea tra normalità e patologia
Non c’è dubbio che negli ultimi anni gli studi epidemiologici abbiano registrato un incremento di comportamenti internalizzati tra gli adolescenti. Ansia, depressione, isolamento sociale: fenomeni reali che meritano attenzione. Ma il rischio di trasformare rapidamente questi segnali in diagnosi psichiatriche è concreto e preoccupante.
Il processo che gli esperti chiamano “psichiatrizzazione sociale” rappresenta un cambiamento culturale profondo: abbiamo iniziato a leggere qualsiasi forma di disagio attraverso la lente della patologia, perdendo di vista il contesto in cui questo malessere si sviluppa. Gli adolescenti, in questa prospettiva, non sono più giovani in difficoltà ma “casi clinici” da trattare.
La conseguenza? Una psicopatologizzazione iatrogena (cioè causata dall’intervento stesso) del malessere adolescenziale. In parole povere: trasformiamo in malati persone che potrebbero non esserlo, con tutte le conseguenze che questo comporta per la loro identità in formazione e per il loro futuro.
Molte fonti indicano un aumento della crisi di salute mentale tra i giovani:
Nel 2024, oltre 16 milioni di italiani hanno manifestato disturbi psicologici di entità media e grave, con un aumento del 6% rispetto al 2022.
Un’analisi di Unicusano ha evidenziato che il numero di giovani con disturbi psicologici in Italia supera i 700.000, con ansia e depressione tra i problemi più comuni.
Quasi la metà (49,4%) dei giovani italiani tra i 18 e i 25 anni ha sofferto di ansia e depressione negli anni successivi alla pandemia.
Il 40% delle donne della Generazione Z ha riferito di sentirsi spesso depresso.
Il 54% dei giovani della Generazione Z ha dichiarato di aver vissuto episodi di stress tali da non poter svolgere attività quotidiane.
Il 45% degli adolescenti prova un sentimento di incertezza, che si trasforma in ansia per il 32%.
Uno studio ha rilevato che un giovane su tre tra i 18 e i 24 anni soffre di sintomi indicativi di problemi di salute mentale, come disturbi d’ansia o depressione, rispetto a uno su quattro negli anni 2000.
A livello globale, 1 adolescente su 7 tra i 10 e i 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni in Europa occidentale, dopo gli incidenti stradali.
I fattori sociali dimenticati
Quello che spesso viene ignorato in questa corsa alla diagnosi sono i fattori sociali che contribuiscono al malessere giovanile. Un mondo ipercompetitivo, l’incertezza sul futuro, la precarietà relazionale, la pressione dei social media, la crisi climatica: quanto pesano questi elementi sul benessere psicologico dei nostri adolescenti?
La preoccupazione per l’apparente aumento dei problemi di salute mentale in adolescenti e giovani si è intensificata considerablemente negli ultimi anni, ed è diventato comune riferirsi ad una “crisi di salute mentale” in questo gruppo di età.
Non si tratta di negare l’esistenza di autentici disturbi psichiatrici tra i giovani, ma di evitare quella che potremmo definire una “scorciatoia diagnostica”: è più facile etichettare gli adolescenti come depressi o ansiosi che affrontare le complessità sociali, educative e relazionali che potrebbero alimentare il suo malessere.
Adolescenti, serve una risposta integrale
Cosa significa tutto questo per professionisti, genitori e educatori? Innanzitutto, la necessità di uno sguardo più ampio e complesso sul disagio giovanile. Gli studi pubblicati su Papeles del Psicólogo ci invitano a considerare l’intero contesto in cui l’adolescente vive e si sviluppa, evitando facili etichettature.
In secondo luogo, occorre sviluppare risposte integrali che non si limitino all’intervento clinico-psichiatrico. Se il malessere ha radici sociali, anche le soluzioni dovranno essere in parte sociali: politiche giovanili adeguate, spazi di espressione e partecipazione, comunità educative supportive.
Non ultimo, dobbiamo recuperare una visione dell’adolescenza come fase naturalmente turbolenta, contradditoria, talvolta dolorosa ma non per questo patologica. La capacità di tollerare l’incertezza e l’ambiguità è parte del percorso di crescita, tanto per i giovani quanto per gli adulti che li accompagnano.
Adolescenti, il coraggio della complessità
Viviamo in un’epoca che ama le soluzioni rapide, le categorie nette, le risposte farmacologiche. Ma la complessità dell’esperienza adolescenziale sfugge a queste semplificazioni.
Occorre il coraggio di sostenere questa complessità, di resistere alla tentazione di “aggiustare” rapidamente ciò che percepiamo come “rotto”. Perché forse, in molti casi, non si tratta di adolescenti da riparare ma di un mondo adulto che fatica a comprendere e accogliere le loro legittime inquietudini.
Non è una posizione comoda, lo so bene. È più rassicurante pensare che esista una diagnosi chiara e una cura codificata. Ma la scorciatoia diagnostica rischia di farci perdere di vista la strada principale: quella che porta a una comprensione autentica del mondo degli adolescenti, con tutte le sue ombre e le sue luci.