Ci sono guerre che si combattono con le armi, altre con le parole. Quella in corso, e non da ora, tra Cina e Stati Uniti si combatte (al momento) con gli elementi della tavola periodica. Dal 4 aprile scorso, il governo cinese ha imposto nuovi e drastici controlli sulle esportazioni di terre rare critiche, e intende incrementarli: un colpo potenzialmente devastante nella guerra dei dazi con l’amministrazione Trump.
Samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio: vi dicono qualcosa? Sono nomi che suonano alieni alla maggior parte di noi, ma che in realtà sono presenti in ogni dispositivo che utilizziamo quotidianamente, dagli smartphone ai bombardieri stealth. Non è solo un’altra scaramuccia commerciale: è una mossa strategica che colpisce direttamente la spina dorsale della difesa nazionale americana e dell’intera economia high-tech occidentale.
L’arma invisibile di Pechino nella guerra dei dazi
Da osservatore europeo assisto a una partita a scacchi particolarmente sofisticata. La Cina non sta semplicemente rispondendo alla guerra dei dazi di Trump: sta sfruttando il suo quasi monopolio (come nella trasformazione del litio, peraltro) su risorse che al momento sono letteralmente insostituibili. Il disprosio e il terbio, ad esempio, sono fondamentali per produrre magneti resistenti alle alte temperature, essenziali per motori elettrici in missili guidati, aerei, droni e sistemi di propulsione navale.
I magneti al samario-cobalto, addirittura, alimentano tutto: dagli attuatori degli F-35 ai sistemi di puntamento. Il gadolinio è un componente chiave dei sonar militari. Le leghe di scandio-alluminio riducono il peso mantenendo la resistenza nelle strutture aerospaziali. E il lutezio viene sempre più utilizzato nei sistemi avanzati di rilevamento delle radiazioni.
Non sono materiali di lusso, ma peggio: sono componenti non rimpiazzabili. Al momento, costruire un veicolo ipersonico avanzato, un missile da crociera lanciato da sottomarini o uno sciame di droni da battaglia senza questi elementi è semplicemente impossibile. Un dato che dovrebbe farci riflettere sulla fragilità delle nostre catene di approvvigionamento globali.
Un monopolio preoccupante
Come detto, la Cina domina la filiera dei materiali che vi ho descritto: controlla circa il 70-85% della loro capacità globale di produzione e lavorazione. In molti casi, come per il disprosio e il terbio, la Cina non è il fornitore dominante: è proprio l’unico economicamente valido.
Le guerre del futuro potrebbero non iniziare con missili, ma con minerali.
Le implicazioni delle nuove restrizioni vanno ben oltre la difesa. Questi stessi elementi sono fondamentali per industrie che definiscono la civiltà moderna: elettronica di consumo, automazione industriale e robotica, assistenza sanitaria, veicoli elettrici e ibridi, turbine eoliche, diagnostica per immagini, semiconduttori, elettrodomestici e molto altro. Ora Pechino minaccia di bloccarli per chi considera suoi avversari.
Questa è una lezione da non dimenticare: la dipendenza da un singolo fornitore per materiali strategici è una debolezza sistemica che richiede soluzioni urgenti votate all’autonomia, o alla diplomazia. La lezione sul gas russo (e anche su quello americano comprato anche a peso d’oro) non ha insegnato ancora nulla.
Guerra dei dazi: segni di cedimento USA?
Credo non sia un caso che, proprio mentre la Cina imponeva queste restrizioni sulle terre rare, l’amministrazione Trump abbia fatto marcia indietro sui dazi relativi agli smartphone. Una mossa che, vista da questa parte dell’Atlantico, appare come un segno di debolezza, o quantomeno come il riconoscimento implicito della posizione di forza cinese. Quindi no, Adnkronos, Trump NON HA “graziato” i cinesi. Rifletti.
Gli USA stanno scoprendo, forse tardivamente, che in questa guerra commerciale (uso parole del 47° presidente americano) “non hanno tutte le carte in mano”. Anzi, alcune delle carte più importanti sono saldamente nelle mani di Pechino. Il repentino ammorbidimento della posizione americana sugli smartphone potrebbe essere proprio una diretta conseguenza della consapevolezza che, senza le terre rare cinesi, l’intera industria tecnologica americana rischierebbe il collasso.
Anche la nuova politica di Washington deve confrontarsi con la dura realtà delle dipendenze economiche globali, in questa globalizzazione prima voluta e poi fatta a pezzi. Eppure, non è un processo nato stamattina.
Un precedente inquietante
La storia recente ci insegna che non è la prima volta che la Cina utilizza questa leva. E nemmeno la seconda. Nel 2010, Pechino ha imposto restrizioni alle esportazioni di terre rare durante una disputa territoriale con il Giappone. Nel 2023, ha imposto restrizioni su gallio, germanio e grafite (importanti nella produzione di semiconduttori) in risposta ai divieti statunitensi sull’esportazione di chip. L’anno scorso, ha rafforzato le restrizioni su gallio e germanio e ha aggiunto antimonio e materiali superduri.
Questa ultima mossa annunciata da Xi è la più espansiva. Prende di mira una gamma più ampia di elementi, e il linguaggio normativo è ampio, coprendo metalli, ossidi, leghe, composti, magneti e persino obiettivi di materiali misti utilizzati nella produzione di film sottili. Un colpo, perdonatemi se mi ripeto, terrificante.
La risposta occidentale
Guardando questa situazione dalla prospettiva occidentale, bisogna rendersi conto che tanto gli USA quanto l’Europa hanno mancato di lungimiranza. Certo, l’amministrazione Trump sta già adottando misure aggressive per mettere gli Stati Uniti in una posizione di maggiore autosufficienza in termini di terre rare e minerali critici. Ma i progressi americani in questo settore negli ultimi 20 anni sono stati lentissimi.
E l’Europa? Peggio mi sento. Il vecchio continente si trova in una posizione vulnerabile, con pochissimi giacimenti di terre rare e una dipendenza quasi totale dalle importazioni. La necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento, investire in riciclaggio e sviluppare alternative tecnologiche è urgente tanto per noi quanto per gli americani.
La lezione è chiara: le guerre del futuro potrebbero non iniziare con missili, ma con minerali. E a meno che l’Occidente non investa per garantire l’accesso agli elementi che alimentano le nostre tecnologie, potremmo presto trovarci dalla parte sbagliata di un divario digitale e difensivo.