“È inevitabile. Voglio dire, è come dire ‘Non credo che queste auto funzioneranno. Stiamo bene così, con i cavalli. Restiamo coi cavalli’. E sì, puoi dirlo, ma non è così che funziona il mondo”. Sono le parole di George Lucas, creatore di Star Wars, sull’uso dell’intelligenza artificiale nel cinema. Parole che suonano come una sentenza, pronunciate da uno dei più grandi visionari della settima arte.
Lucas, che ha ricevuto ieri una Palma d’Oro onoraria al Festival di Cannes, ha affrontato il tema caldo dell’AI tirando in ballo l’esperienza pionieristica della sua Industrial Light and Magic (ILM) con la tecnologia digitale. Il suo discorso va ovviamente oltre il semplice parallelo tecnico, per abbracciare una riflessione più ampia sul destino del cinema nell’era dell’intelligenza artificiale. Qualcosa di simile a quanto Annie Leibovitz ha detto nel campo della fotografia e di Joe Russo, sempre per il cinema. Sentiamo.
L’IA nel cinema secondo George Lucas: un cambio di paradigma inarrestabile?
L’affermazione di George Lucas sull’inevitabilità dell’intelligenza artificiale nel cinema non è una mera constatazione tecnica. È una riflessione profonda sul cambiamento dei paradigmi. Paragonando l’avvento dell’intelligenza artificiale nella settima arte al passaggio dal cavallo all’automobile, il creatore di Star Wars sembra suggerire che siamo di fronte a una rivoluzione inarrestabile, destinata a ridefinire il modo stesso in cui concepiamo e realizziamo i film.
Ma cosa implica davvero questo cambio di paradigma? Se da un lato l’IA promette di aprire nuove frontiere creative, dall’automazione dei processi più ripetitivi alla generazione di contenuti inediti, dall’altro solleva interrogativi profondi sul ruolo dell’artista e sulla natura stessa dell’atto creativo. Se una macchina può scrivere una sceneggiatura, dirigere una scena, o addirittura recitare, cosa resta del genio umano? L’arte cinematografica può davvero essere ridotta a un algoritmo, per quanto sofisticato?
ILM e la rivoluzione digitale: un precedente storico
Per George Lucas, che non si scompone, questi interrogativi non sono nuovi. Il suo riferimento all’esperienza di Industrial Light & Magic con la tecnologia digitale suggerisce che il cinema ha già affrontato sfide simili in passato. Fondata nel 1975 per realizzare gli effetti visivi di Star Wars, ILM è stata in prima linea nella rivoluzione digitale che ha trasformato il cinema a partire dagli anni ’90, introducendo tecniche come il morphing, il crowd rendering e la motion capture.
All’epoca, molti temevano che l’avvento del digitale avrebbe segnato la fine dell’artigianalità e della creatività nel cinema. Voglio dire, quanti professionisti erano coinvolti nella creazione di esplosioni, plastici e quant’altro? Eppure, a distanza di decenni, possiamo dire che quei timori erano infondati.
La tecnologia digitale non ha ucciso il cinema, anzi. Lo ha arricchito di nuove possibilità espressive, aprendo la strada a visioni prima impensabili. Dai mondi fantastici di Avatar alla poesia visiva del Favoloso mondo di Amélie, il digitale è diventato uno strumento al servizio dell’immaginazione, non il suo padrone.
George Lucas e l’AI come strumento, non come fine
Forse, suggerisce implicitamente George Lucas, lo stesso potrebbe accadere con l’intelligenza artificiale. Forse, invece di temerla come una minaccia esistenziale per l’arte cinematografica, dovremmo vederla come un nuovo strumento a disposizione dei creativi, capace di ampliare i confini del possibile. Non una sostituzione del genio umano, ma una sua estensione.
Certo, perché questo accada, sarà necessario un ripensamento profondo del ruolo dell’artista nell’era dell’intelligenza artificiale. Il regista, lo sceneggiatore, l’attore, dovranno imparare a collaborare con la macchina, a guidarla e a ispirarla, più che a competere con essa. Dovranno trovare un nuovo equilibrio tra il controllo creativo e l’automazione, tra l’intuizione e l’algoritmo. Non sarà un percorso facile, e richiederà un’evoluzione non solo delle competenze tecniche, ma anche della sensibilità artistica e della visione etica.
Verso un nuovo umanesimo cinematografico
Badate bene (anche se questo lo dico io, non George Lucas. Vi dovete accontentare): la sfida più grande che l’IA pone al cinema non è tecnica, ma umanistica. Se le macchine si fanno sotto e replicano sempre più da vicino le capacità creative dell’uomo, il cinema dovrà trovare un nuovo modo di affermare la sua specificità, la sua irriducibile umanità.
Dovrà farlo riscoprendo ciò che rende l’arte cinematografica unica e insostituibile: la sua capacità di emozionare, di provocare, di far sognare. La sua abilità nel cogliere le sfumature dell’animo umano, nel raccontare storie che ci toccano nel profondo. La sua magia nel creare mondi in cui possiamo perderci e ritrovarci, specchi in cui possiamo scrutare la nostra stessa essenza.
Perché il cinema è un atto di comunicazione tra esseri umani, un ponte gettato tra immaginari, sensibilità, storie diverse. Storie che parlano di noi, e del nostro inesauribile desiderio reinventare il mondo: anche quando quel mondo sembra sempre più tecnologico e artificiale. Siamo pronti? Motore… Azione.