Una delle “eredità culturali” positive che dovremmo portarci dietro da quella che è una grande tragedia, la pandemia di Covid-19, è il maggiore apprezzamento degli spazi verdi nelle nostre città. Chi di noi vive in metropoli affollate ha sperimentato sulla sua pelle il potere della natura. Ci ha confortato sia fisicamente che mentalmente, soprattutto in questo periodo di forte crisi.
Gli spazi verdi urbani (alberi, boschi, parchi, giardini) offrono molti benefici sia all’ecosistema che agli abitanti delle città . Quando siamo in contatto diretto con queste oasi urbane possono aumentare la nostra salute mentale e ridurre il rischio a lungo termine di contrarre diabete e malattie cardiache. Le città fanno impazzire: stress e inquinamento sono un veleno mortale. Più verde urbano significa più attività fisiche, meno stress e più interazioni sociali. A questo serve il rewilding.
Rewilding urbano: più verde per mettere l’inquinamento con le spalle al muro
Vi ho parlato qualche tempo fa del rewilding: è un movimento trasversale e multidisciplinare di pensiero che punta a far “tornare alla natura” pezzi del nostro mondo. Il rewilding vive un momento di crescita tra le persone, e un punto centrale: la Scozia, dove tutto è nato. Bene: il rewilding dice che un altro vantaggio di parchi e foreste urbane è che tamponano l’inquinamento atmosferico. Come? Nel modo più semplice: limitando le aree disponibili per le fonti di emissioni (auto, anzitutto) e assorbendo gli agenti inquinanti.
Per questo molte città (penso a Seattle, Madrid, Barcellona ed altre) stanno diventando più verdi. Tolgono strade alle auto e le danno ai pedoni. Piantano più alberi e progettano nuovi parchi per combattere la crisi climatica e migliorare la qualità dell’aria. Prendete Londra: attualmente il 21% della città si trova all’ombra della chioma di oltre 8 milioni di alberi. Una foresta urbana che si espanderà di un altro 10% entro 30 anni.
Sappiamo che riforestare alle condizioni attuali non basta a salvare il pianeta. Però, mentre si dipanano soluzioni globali, può salvare la città che decide di fare rewilding.
Alberi giusti, punti giusti e scienza giusta
Anche Londra, tuttavia, non è esente da problemi. Non basta piantare alberi, servono anche quelli giusti. Ad esempio, alcuni tipi di alberi come l’ontano, la betulla, il platano e il nocciolo possono rilasciare abbondante polline nell’aria e scatenare febbre da fieno e altri sintomi respiratori. Londra è, ahimé, una delle città più colpite da queste manifestazioni, perchè piena di questo tipo di alberi ricchi di polline. Anche a questo serve il rewilding.
Anche il sesso degli alberi è importante. La stragrande maggioranza di quelli piantati lungo le strade delle città del mondo sono maschi. Sessismo botanico! Aiutano a mantenere più ordinate le strade della città non facendo cadere semi, frutti e baccelli, come fanno gli alberi femmina. Questo maschilismo vegetale aumenta le allergie, però. Un incubo per chi ha patologie respiratorie, e peggiora di anno in anno, come rivela un recente studio.
Rewilding vuol dire tornare alla natura, ma farlo con criterio
Senza la giusta pianificazione, il verde può peggiorare addirittura le cose. Se gli alberi sono “sbagliati”, una maggiore esposizione al verde intorno a case e asili nido produce rischi più elevato di rinite tra i bambini tra i tre e i sei anni.
Anche in termini di rimozione dell’inquinamento atmosferico urbano non tutti gli alberi sono ugualmente buoni. Alcuni sono molto efficaci nell’emissione di composti organici volatili biogeni (COV). Sotto la luce del sole, i COV interagiscono con gli ossidi di azoto emessi dal traffico per creare ozono a livello del suolo, un inquinante particolarmente dannoso per i nostri polmoni.
Anche dove piantare è importante. Piantare alberi in una strada cittadina fiancheggiata da edifici intrappola l’inquinamento atmosferico dal traffico intenso sotto la chioma degli alberi, esponendo pedoni e residenti a livelli pericolosamente alti di inquinamento atmosferico.
Bello il ritorno alla natura, insomma, ma l’ultima cosa che vogliamo è che peggiori le cose. Per questo serve un processo decisionale che nasca da conversazioni importanti tra urbanisti, scienziati delle piante, scienziati dell’atmosfera, funzionari della sanità pubblica e politici.