Seguo da tempo le tante iniziative che Eric Schmidt, l’ex CEO di Google e presidente di Alphabet, intraprende. Alcune anche meritorie, peraltro. Questa però mi fa storcere il naso: Schmidt sta supportando una startup chiamata Istari che usa “gemelli digitali” per assemblare e testare virtualmente le macchine da guerra.
Una sorta di piattaforma di intelligenza artificiale generativa che non tira fuori testi o immagini su richiesta, come farebbero ChatGPT o MidjourneyAI, ma armi.
Armi di ogni tipo, sviluppate a velocità mai viste prima.
Schmidt, per la verità, lavora per modernizzare il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti da quando il governo Obama lo ha nominato a capo di un nuovo “consiglio per l’innovazione della difesa”, nel 2016.
E non è difficile credere al fatto che abbia considerato sorpassate le dinamiche di sviluppo degli armamenti americani (dopo un tour dei laboratori e delle basi USA, li valutava come ancora fermi agli anni ’70 e ’80).
Lo erano, certo, perché tarati su una certa “inerzia”. Non si può dire che gli Stati Uniti non facciano guerre, è il contrario. Ma l’ottica, almeno in apparenza, non era più quella di una sfrenata competizione sulle macchine da guerra.
E ora?
Schmidt ritiene che l’esercito americano debba adattarsi all’era dell’informatizzazione, del software e del networking per rimanere competitivo. E Istari è un modo per farlo: considerata la crisi generale delle Big Tech, una nuova Silicon Valley potrebbe trovare vantaggioso sorgere in ottica bellica, e non è un segnale beneaugurante.
Specie in tempi di intelligenza artificiale: la combinazione di ampie capacità generative e autonomia dei sistemi (in grado di muoversi, persino di combattere e uccidere da soli) può essere letale oltre ogni immaginazione.
L’ex CEO Google, però, non sembra perdersi in troppe riflessioni. L’opportunità, dice, è quella di ristabilire il predominio occidentale. E questo, immagino, val bene ogni rischio?